11 marzo 2011

Standing ovation!



Abbiamo resistito alle Br: Bocchino ci fa ridere.
di Paolo Granzotto

Italo Bocchino è un buffone. Non è che voglia aggravare la mia posizione di querelato: una sentenza della Corte di Cassazione relativa a quel Piero Ricca che diede, appunto, del buffone a Silvio Berlusconi, stabilisce infatti che rivolgersi in tal fatta a un politico non costituisce reato, essendo solo una «forte critica che può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la sua posizione pubblica». E Italo Bocchino, che è di elevata posizione pubblica, niente meno che il vice del Presidente della Camera, si prenda dunque da me del buffone.
Ne abbiamo passate delle belle, qui al Giornale. Dapprima trattati da pirla allo sbaraglio (ci davano per falliti entro sessanta giorni), poi da appestati cui negare non dico la parola, ma il semplice buongiorno e infine da nemici da abbattere con ogni mezzo. Subimmo scioperi selvaggi in tipografia, boicottaggi nelle edicole, assalti alla redazione da parte di branchi di scalmanati armati di chiavi inglese e oggetti contundenti di diversa natura. Montanelli si beccò anche le pallottole. Per dire del clima, fummo costretti a prendere il porto d’armi - subito accordato per manifesto stato di pericolo - e girare con la pistola nella fondina. E tutto questo era niente di fronte alla quotidiana martellante, proterva, violenta e sguaiata aggressione verbale e giornalistica. Altro che stalking. La libertà di stampa e d’opinione, i diritti riconosciuti dalla Costituzione «più bella del mondo» sbandierati ieri e oggi da quelle forze politiche e giornalistiche che vantano la diversità antropologica, a noi del Giornale non era riservata. Per i lorsignori, o cantavi nel coro o volente o nolente ti tappavi la bocca.
Ma a quei tempi a mordere erano almeno le iene, belve dalla forte dentatura. Oggi escono dall’ovile e ci mordono o provano a farlo le pecore, gli Italo Bocchino. Che da buon fascista, ancorché rinnegato, la libertà di stampa e d’opinione non sa nemmeno dove stia di casa e dunque si stizzisce, adendo subito le vie legali, se un giornale come il Giornale non dico lo critica, ma non lo eleva - come fecero in un primo momento, sognando il ribaltone, La Repubblica, Santoro e il Tg3 - a statista d’alto rango, di grande cultura e di sopraffina intelligenza. Non si sente diffamato, Bocchino. Non ha trovato, in quello che ho scritto o hanno scritto i miei colleghi querelati, particolari disonorevoli sul suo conto, tali d’averne offeso la reputazione. Ciò che abbiamo scritto è solo che la sua lucida mente ha portato l’ambizioso progetto futurista di far fuori il governo Berlusconi a una Caporetto senza se e senza ma. Provi qualcuno a negarlo. Per addentarci, col suo morso di pecora, è dovuto dunque ricorrere allo stalking, accusandoci non solo di fargli perdere il sonno, ma di averlo fatto, insieme alla moglie, deperire e dimagrire. È dunque una fortuna che ci venga in aiuto la Corte di Cassazione (sentenza 19509 del 4 maggio 2006) permettendoci di dare, «accertati il sostrato fattuale della critica e l’utilità sociale della stessa», del buffone a chi impugna simili mezzucci per unirsi all’opera di quanti vollero e tuttora vogliono far tacere la voce del Giornale. Non ci riuscirono, con mezzi assai più devastanti, negli anni di piombo. Figuriamoci se ci riuscirà, tirando in ballo la silhouette sua e della sua signora, una nullità politica come Italo Bocchino.

4 commenti:

  1. Bocchino...... basta la parola!

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  2. Che dite adesso che il Gip ha disposto l'archiviazione di Gianfranco Fini per la casa di Montecarlo? Si è sgonfiata la montatura del Giornale. Puff!

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  3. Capiamoci: a me non interessa minimamente la valutazione di qualche giudice compiacente in merito alla accusa di truffa aggravata. A noi ex missini interessa invece sapere che la vicenda della casa di Montecarlo non è una montatura, tutt'altro. Come chiaramente ha stabilito il Gip, il patrimonio di Alleanza Nazionale è stato alienato da Fini ad una società offshore. Questo non costituisce reato, ma fa girare, e parecchio, gli zebedei a tutti quei militanti che la pensavano esattamente come la contessa Colleoni che, da buona fascista, lasciò in eredità al partito quell'immobile tutto pensando meno che sarebbe poi stato venduto a prezzo di favore al cognato di Fini. E se proprio la vogliamo dire tutta, quelli che nel 1999, anno del testamento, erano iscritti ad AN, quindi sostanzialmente soci, dovrebbero sentirsi defraudati di un patrimonio che era anche loro. Specialmente quelli di provenienza MSI, come la autrice del lascito, che spesso tiravano fuori di tasca propria i soldi necessari al funzionamento delle strutture periferiche del partito. Il giovane cognato, invece, è arrivato bello bello e si è intascato un patrimonio milionario. Alla faccia nostra. Fini non ha commesso nessun reato? Può darsi, ma quello che ha commesso nei nostri confronti è qualcosa di molto più grave. L'anonimo estensore del commento qui sopra non riesce a capirlo? E' comprensibile: chissà da che razza di democristianeria proviene.

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  4. In una perquisizione ordinata dai giudici, hanno trovato a casa mia una misteriosa tuta nera col numero 36, un mantello e un cappuccio sturacessi da Capitan Ventosa, un paio di calosce da guerra, una clava e un ventilatore portatile ancora sporco di letame. Ho dovuto confessare agli inquirenti che è la divisa assegnata a me e ad altri 35 militi del Giornale dalla Struttura Delta per appostarci, insultare e sporcare Bocchino. Ho dovuto anche svelare perché siamo in 36 a fare stalking contro di lui: siamo divisi in 6 squadre da 6 e ci alterniamo in turni di 4 ore sotto casa, sotto il Parlamento e a volte sotto il letto. Lo minacciamo, lo molestiamo, gli palpiamo le chiappe, gli telefoniamo in continuazione, gli attribuiamo atrocità su Sara, Yara e Mara, ci imbuchiamo ovunque. Collaborano con noi i servizi segreti deviati di Dagospia. Ogni sabato la Struttura Delta ci dà la paga, misurata col bocchinometro; siamo pagati in base ai danni che produciamo a Bocchino. Facciamo apposite riunioni ad Arcore, ci mostrano sulla lavagna luminosa il Bocchino e i suoi punti deboli, facciamo simulazioni di agguato. C’è chi ha studiato da killer, chi da cane da caccia, io da privatista. Ho seguito corsi per corrispondenza «Black Boc», che in codice significa «fare nero Bocchi no».

    Ho confessato ai giudici che non ho mai dedicato un articolo o anche mezzo al Bocchino, ma solo qualche fugace accenno di passaggio. Ho dovuto ammettere di non aver mai studiato il pensiero di Bocchino, l’uomo e l’opera. Né conosco suoi proseliti; conosco qualche bocconiano, ma nessun bocchiniano. Però Bocchino querela per diffamazione anche se lo citi solamente. Bocchino a me? Ma io ti querelo. Mi chiedo che precedente si creerebbe se i magistrati prendessero sul serio la denuncia di Bocchino: da Berlusconi ai suoi ministri, dallo stesso Fini ad Alemanno, a tanti personaggi non solo di primo piano ma anche di secondo piano, di mansarda e sottoscala, visto il precedente, denuncerebbero i giornali che li criticano di perseguitarli e molestarli. Ora sono pronto a scrivere un articolo riparatore su Italo Bocchino statista e a sostenere che l’Italia si chiama così in suo onore.

    Marcello Veneziani

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