22 giugno 2011

Come volevasi dimostrare.



Passata la sbornia di entusiasmo per la spallata affibbiata a Berlusconi con la vittoria referendaria, in casa Pd si iniziano a fare i conti con le conseguenze concrete della consultazione. E sull'acqua “bene pubblico” per gli amministratori locali del Pd son già dolori. Tanto che si vuol cercare una soluzione legislativa che rimetta ordine nel caos creato dai due quesiti idrici: “E' necessario mettere riparo in fretta ai vuoti normativi che si sono aperti”, dice Sergio D'Antoni, responsabile dell'organizzazione e delle politiche del Pd sul territorio. E per farlo, ammette, occorre trovare un'intesa con la maggioranza di centrodestra, senza i cui voti nessuna legge può passare. Dal Pdl però si reagisce con cautela: “Certo bisognerà trattare, ma come facciamo a fidarci di un Bersani che fino ad un anno fa propagandava le privatizzazioni dei servizi locali e poi si è buttato sul carro referendario?”.
Per capire la portata del problema che ora si pone agli amministratori (e ai cittadini che aprono i rubinetti), si prenda il caso Hera, la holding bolognese quotata in Borsa che gestisce i servizi idrici, ambientali ed energetici in Emilia Romagna. Un colosso, il secondo gestore delle acque in Italia, e legato a doppio filo ai governi locali della regione più rossa d'Italia: per Hera, il referendum è stato un terremoto, e sono i cittadini che rischiano di pagarne il conto salato. Il 13 giugno la società ha annunciato che non firmerà più la convenzione con gli enti locali che prevedeva investimenti per 70 milioni di euro sulla rete idrica. In Borsa ha perso circa il 10 per cento del suo valore, bruciando circa 187 milioni di capitalizzazione: per il Comune di Bologna (appena riconquistato dal Pd), che ha il 13% delle quote, si tratta di una perdita secca di 25 milioni e mezzo; 35 i milioni persi dai comuni della provincia. Le conseguenze catastrofiche del sì ai due quesiti vengono spiegate, in una intervista al Corriere di Bologna, dall'assessore provinciale all'Ambiente della Provincia di Bologna, Emanuele Burgin, che non a caso era schierato per il no: “Serve una nuova legge nazionale, perché siamo in una situazione di stallo. Se a Bologna si fermano 70 milioni di investimenti, con tutte le conseguenze che si possono immaginare anche in termini economici e di occupazione, il dato nazionale è pari a 6 miliardi”. Difficile però pensare che governo e Parlamento rispondano a questa esigenza in tempi brevi. Quindi? “Quindi â- dice Burgin - non sappiamo come fare. I soldi per fare investimenti gli enti locali non li hanno. Rispettiamo la volontà espressa dal referendum, che ha abrogato una norma introdotta dal governo Prodi, ma bisogna dire con altrettanta onestà che il ricorso ai privati era l'unico modo per finanziare gli investimenti”.
Erasmo De Angelis, ex consigliere regionale toscano del Pd e oggi presidente di Publiacqua, la società idrica locale, solleva un altro problema potenzialmente esplosivo: “Da oggi, dopo l'abrogazione del 7%, che bollette mandiamo ai nostri cittadini? Formalmente dovrebbero valere le vecchie tariffe, ma mi aspetto che se non le riducessimo saremmo presto sommersi da una valanga di ricorsi dei consumatori”. E infatti il Codacons già minaccia: “Le bollette devono scendere immediatamente del sette per cento. Siamo pronti ad una class action nel caso i gestori non applichino immediatamente l'esito referendario”. Incalza De Angelis: “Dove li prendiamo adesso i soldi per le infrastrutture? Ce li daranno i sindaci? Publiacqua ha aperto un cantiere da 71 milioni di euro a Firenze, per dare una fogna a mezza città. In totale abbiamo programmato investimenti per 740 milioni nei prossimi dieci anni. Quelli di Milano mi hanno detto che loro hanno in cantiere opere per 800 milioni. Come facciamo? Tremonti ci mette a disposizione la Cassa depositi e prestiti per finanziarci?”.
Insomma il voto non è servito ad altro che ad aprire le porte ancor meglio alle multinazionali. E i costi, vedrete, alla fine, e neanche tra molto, di fatto saliranno.
(Noreporter.org)

21 giugno 2011

Ma...


da: Notizie di Prato:

"Emergenza profughi, arrivati altri sei giovani maliani: saranno ospitati a Sofignano insieme ai loro connazionali

Nuovo arrivo di un gruppo di profughi provenienti da Lampedusa. Sono sei uomini del Mali fuggiti dalla Libia a causa della guerra e sbarcati sull’isola siciliana lo scorso 11 giugno. A Sofignano i maliani salgono a 11. Tutti sono richiedenti asilo in Italia. In attesa di una eventuale concessione dello status di rifugiato godono di un permesso di soggiorno temporaneo."


...qualcuno potrebbe dirmi per quale arcano motivo i suddetti profughi, che erano in Libia per lavoro, quando sono dovuti "fuggire" per la guerra in corso, non sono tornati in Mali?

10 giugno 2011

Al mare, al mare!


La truffa dei referendum è così smaccata che verrebbe voglia di non parlarne nemmeno per non concedere un’immeritata importanza a coloro che l’hanno organizzata.
La prima, grande truffa è che votare per il referendum sia un dovere. L’astensione è invece una scelta perfettamente legittima e, ormai per prassi, la mossa corretta per chi intenda esprimere la propria contrarietà ai quesiti. Dato che in caso di mancato raggiungimento del numero di voti espressi pari al 50% degli elettori il referendum è considerato nullo, ormai da tempo l’astensione è l’arma di chi desideri votare no ai quesiti: infatti dal ’95 nessun referendum proposto è più risultato valido proprio perché l’astensionismo dei contrari ha fatto mancare il quorum. Fa quindi tristezza vedere una persona come Benedetto Della Vedova, ex Pdl, radicale (e quindi esperto di cose referendarie) e ora Fli, avere la faccia tosta di andare in televisione da Bruno Vespa e dire che si dava indicazione di votare per il «no» ad un quesito come quello sull’acqua, che vuole abrogare una liberalizzazione che porta la firma del suo compagno di partito, Andrea Ronchi. Dire di votare per il «no» è una pura e semplice truffa, dato che un minimo di onestà intellettuale vuole che le scelte reali siano tra il «sì» e l’astensione. Il voto «no» è esattamente equivalente a votare «sì» perché contribuisce a far raggiungere il quorum e quindi validare il referendum. Ma gli inganni non finiscono qui: infatti nessuno spiega che il decreto Ronchi si adeguava semplicemente a una direttiva comunitaria che prevede affidamenti con gare aperte e trasparenti per la gestione dei vari servizi, tra i quali quello idrico. Se il referendum dovesse raggiungere il quorum in pratica avremmo tante belle Tirrenia dell’acqua, inefficienti, libere di perdere quanto vogliono con i loro costi allegramente scaricati sulla fiscalità generale, vale a dire sui soliti benefattori che dichiarano fedelmente il loro reddito. Gli evasori brinderanno con un bel bicchiere di acqua del rubinetto pagato dal solito pantalone, che ovviamente pagherà anche le inevitabili sanzioni da parte dell’Unione Europea.
Stendiamo un velo pietoso poi sul secondo quesito relativo all’acqua dato che si trattava di un provvedimento varato dal governo Prodi contro il quale ora, con una faccia tosta degna di ben altra considerazione, si mobilitano quegli stessi che l’hanno votato. Gli altri quesiti sono peggio ancora: il referendum sul nucleare si riferisce ad una legge già abrogata (ed è comprensibile, non si può decidere su argomenti impegnativi per anni sull’onda dell’emozione per un fatto eccezionale) quindi è solo la fantasia delle nostre supreme magistrature che è riuscita a generare il mostro di un quesito per abrogare una cosa che non c’è già più.
Non va meglio con il «legittimo impedimento» dato che si omette di ricordare che la legge oggetto di quesito è già stata modificata, guarda caso, dalla Consulta ma, soprattutto, scadrà in ogni caso ad ottobre di quest’anno trattandosi di un semplice provvedimento-ponte in attesa di un’impantanata legge costituzionale. Una bella impresa quindi per la sinistra: organizzare una mobilitazione nazionale per abrogare una liberalizzazione voluta dall’Unione Europea, una legge di Prodi, un provvedimento che non c’è più e una legge che in ogni caso scadrà ad ottobre. Complimenti.

01 giugno 2011

Liberiamoci dai liberatori. Versione contemporanea.


















Macché Milano liberata. Di questi purtroppo non ci libereremo mai

di Alessandro Gnocchi

Ah, la vittoria di Pisapia. Che rivoluzione «tranquilla». Che cambiamento «gentile». Che sviolinate su tutti i quotidiani, pronti a recepire e rilanciare le parole d’ordine necessarie per infondere fiducia e serenità negli elettori. Tutto è cambiato, questo il messaggio, ma pa-ca-ta-men-te come voleva Romano Prodi.
E con quale gentilezza e tranquillità, i soliti noti si apprestano a riprendere ciò che in realtà non hanno mai mollato: il potere e la visibilità. Milano è una «città liberata». Di loro però non si libererà mai...

Nei quartieri alti si gongola. Il giorno dopo è tutto un vantarsi: io lo sapevo, io l’avevo previsto, questa è una sorpresa solo per chi non conosce i salotti del capoluogo, etc. Ecco quindi Francesco Micheli, finanziere, creatore di Fastweb, musicofilo, gran sponsor di «Giuliano» spiegare al Corriere la sua ricetta: «Cultura. Università. Ricerca». E tirare un calcio negli stinchi agli affaristi «spregiudicati» come gli «immobiliaristi» che non troveranno più spazio. Una gelida constatazione che ha il sapore di una promessa. Anche Piero Bassetti, una vita da imprenditore e nella Democrazia cristiana, consigliere e assessore al Comune meneghino fin dal 1956, era stato profetico: «Avevo detto che ci sarebbe stata una slavina». E giù consigli a «Giuliano» per trasformare Milano in una metropoli.

Tutte idee originalissime. Festeggiano anche: Alessandro Profumo, ex amministratore delegato di Unicredit, già in coda alle primarie per l’amico Romano Prodi; Guido Rossi: neoeditorialista del Sole 24 Ore, manovratore della finanza italiana, un cursus honorum che va dalla presidenza della Consob all’elezione in Parlamento nella sinistra indipendente (ma vicina al Pci); Maria Giulia Crespi: fondatrice del Fai e discendente di una dinastia di editori, nota per aver allontanato Indro Montanelli dal Corriere della Sera; l’intera lista Moratti (intesa come Emilia Bossi Moratti detta Milly) composta da docenti, intellettuali, architetti e galleristi tutti quanti per «Giuliano».

Insomma: facce nuove, vicine ai cittadini. Tutta gente pronta a liberare Milano dal centrodestra. Ma di cui Milano non si libererà probabilmente mai, neanche se lo volesse. Sono i famosi poteri forti, bellezza.

Ci sono anche poteri molto meno forti che esultano. Non ci libereremo mai dalle prediche ormai senza capo né coda dell’ecologista Adriano Celentano, prediche indirizzate «a studenti, comunisti, fascisti, leghisti e operai costretti a lavorare nell’insicurezza» che dovrebbero far tesoro degli insegnamenti demenziali del molleggiato, tipo questo: «Essere nuclearisti non è solo una bestemmia, ma significa essere dementi fin dalla nascita».

Non ci libereremo mai dal trionfante senso di superiorità antropologica irradiata da Umberto Eco, dalle battute sempre più stanche di Paolo Rossi, dalle canzoni sempre più retoriche di Roberto Vecchioni, dal teatro sempre più moscio di Moni Ovadia. Sarà difficile liberarsi dal conformismo che definisce «geniale», per principio, ogni opera teatrale di Luca Ronconi, ogni costruzione di Gae Aulenti, ogni interpretazione di Claudio Abbado. E, per converso, sarà difficile liberarsi dal conformismo che impedisce non dico di mettersi a ridere ma almeno di manifestare scetticismo di fronte agli artisti della bomboletta spray, ai documentaristi più pallosi della fantozziana Corazzata, ai gruppi musicali indie rock, in generale a tutto quello che è giovane e quindi automaticamente bello, divertente, innovativo. Anche quando fa pena.

Non ci liberemo mai della retorica anni Settanta di cui «Giuliano» fa sfoggio nel suo vendoliano programma in cui gli orti sono «agricoltura di prossimità», le biblioteche «rifugi anti-noia», i volontari «amici della città»; in cui la gente dorme in «alberghi diffusi» nel «deserto urbano»; in cui lo sviluppo è «responsabile, sostenibile, etico e solidale» e ha un gran bisogno di «incubatori tecnologici». E se per caso state pensando che è la solita fuffa vecchia di cinquant’anni, ecco una bella bordata di inutili termini inglesi, di cui non ci libereremo mai finché la scuola non tornerà a insegnare l’italiano: e giù green economy, pet-therapy, e-democracy, venture capitalists e business angels.

E adesso gioite: siete liberi. Di pensarla come loro o di stare zitti.