17 novembre 2011

Diritto al voto, ma che inutile scocciatura...


di Marcello de Angelis
Ci sono voluti sessant'anni, ma gli italiani hanno capito che la democrazia non fa per loro. E pensare che c'è voluta una guerra e milioni di morti per "regalarcela". Che poi tutto si riassume semplicemente in un unico diritto, che è quello di voto, che si basa sull'idea - da molti ritenuta fantasiosa - che ogni individuo abbia la capacità di formarsi un'opinione ed esprimerla. Gli italiani - dopo meno di un secolo di suffragio universale - sono tornati a una visione semplice e tradizionale. Esiste un'entità metafisica invisibile e onnipotente (prima Dio, oggi il Mercato) che ti favorisce o ti punisce se tu c'azzecchi o sbagli. Un capo legittimo è colui che interpreta il suo volere o - addirittura - è direttamente indicato da lui. Egli si contorna di un'aristocrazia dove i titoli contano più della persona. Uno è professore, o esperto, generale, marchese. Tengono lontane le carestie, intercedono con Dio per avere piogge nella stagione giusta e ricchi raccolti. Così non vivremo più nella paura della punizione divina. Inutile soffrire di invidia per gli altri popoli che sembrano a volte decidere per noi. D'altronde ci hanno sempre considerato dei camerieri o dei pizzaioli, degli sciuscià o dei mafiosi. Da sempre chi vuole darsi arie parla francese o studia in Inghilterra. Torniamo alle nostre attività di sempre. Spendiamo in schedine e lotterie più di una intera finanziaria, evadiamo le tasse con moderazione (siamo sempre il Paese dei furbi e poi lo fanno tutti), parliamo alle spalle e di fronte diciamo "sissignore". Sperando che un giorno quel Signore inciampi, così gli tiriamo qualche calcio quando è a terra…. La politica è una cosa sporca… tutti i giornali dicono che… gli americani so' forti… avanti dotto'… indietro dotto'… Me la dà una mancetta?

09 novembre 2011

Credibilità.


Primo grande successo delle manovre della sinistra e dei traditori: borsa a picco e spread a 575.
Complimenti!

04 novembre 2011

Cavalcare la tigre.


































di Marcello Venezian
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Non so cosa avrà capito il ladro che mi rubò la Mini Minor e si trovò sul sedile una copia, tutta sottolineata e chiosata, di Cavalcare la tigre di Julius Evola. La sua perdita mi fece soffrire quasi più dell’auto rubata. Avevo vent’anni e consideravo quel libro una specie di manuale pratico di filosofia di vita, un codice d’onore in epoca disonorata, un galateo indispensabile per un Vero Signore, ma non nel senso alto borghese in cui ne scrisse Giovanni Ansaldo o, peggio, delle buone maniere prescritte dalle donne Letizia dei rotocalchi. Il Signore evoliano era «l’uomo differenziato», fiero di distinguersi dalla massa. La sua era un’opera da asceta in campo, come uno Zarathustra disceso dai monti in piena epoca nichilista.
Cavalcare la tigre è un manuale di sopravvivenza metapolitica per chi dissente dal proprio tempo e dal mondo in cui vive; ma, non potendolo modificare, preferisce ritirarsi in attiva solitudine e padroneggiarlo, cavalcarlo per non essere travolto. «Cavalcare la tigre» è un motto cinese, rispolverato anche da Mao, e suggerisce non di affrontare la tigre o tentare la fuga, ma di saltarle in groppa e correre su di lei. È un breviario aristocratico di nichilismo attivo per chi ha scelto non la politica, ma l’apolitìa, come la chiama Evola, o la scelta «impolitica» come invece l’aveva definita Thomas Mann.
Cavalcare la tigre compie ora cinquant’anni e la Fondazione Evola diretta da Gianfranco de Turris ha deciso di ricordare quell’opera che ebbe un effetto bomba sulla destra giovanile, soprattutto quella radicale. E ha organizzato all’Accademia di Romania in Roma un incontro per discutere di quel libro di culto che pervase almeno tre generazioni di non conformisti. Dal ’61 ad oggi continua a essere ristampato continuamente; l’edizione più recente ha l’introduzione di Stefano Zecchi e la postfazione di de Turris, che è il curatore dell’opera omnia evoliana.
Cavalcare la tigre è l’opera di un pensatore legato alla Tradizione il quale, vivendo nell’irreversibile Età Oscura (kaly yuga), in preda a decadenza, desolazione e rovine, favorisce la corsa verso la dissoluzione perché solo raggiungendo il punto zero si potrà poi risalire e invertire la rotta. Una posizione che rischia la complicità con i dèmoni della decomposizione. L’anomìa, il caos, la trasgressione, l’anarchia diventano per l’evoliano occasioni per temprarsi.
Cavalcare la tigre fu il ’68 della destra colta e radicale, la trasgressione nel nome della tradizione.
Nelle mani dei giovani radicali di destra Cavalcare la tigre diventò un libro pericoloso. Ma non perché istigasse alla violenza e al terrorismo, come pensarono alcuni questurini dell’ideologia, ma perché diventò un nobile alibi per scelte anarco-individualiste, per esperienze trasgressive e alienanti e per la fuga dalla politica. Fu la via d’accesso per entrare da destra nel dionisismo di massa che poi esplose nel ’68. O, per altri versanti, fu una password verso l’uso della modernità e dei suoi mezzi.
In quel testo Evola tornava alla sua gioventù dadaista e all’Autarca, l’individuo assoluto della sua prima filosofia. Tornava a Nietzsche e al suo nichilismo attivo, incontrava Ernst Jünger, del quale tradusse - nello stesso periodo in cui scriveva Cavalcare la tigre - l’Operaio, e al poeta Gottfried Benn. Fra il Tantra e Dioniso. Poi, davanti al ’68, Evola tornò alla Tradizione, si spinse nel ruolo di teorico di una Destra metastorica e postfascista e si spense nel ’74, in piena epoca di stragi «nere» che gettarono su di lui un’ingiusta luce diabolica, da Grande Ispiratore.
Poi la tigre disarcionò i suoi cavalcatori e continuò a correre verso il nulla.